10 febbraio 2009

CI PENSA IL PRIVATO: CONSIDERAZIONI SUL MODELLO DI GOVERNO DEL TERRITORIO LOMBARDO

di Fabrizio Bottini* e Maria Cristina Gibelli**

Premessa
La riforma del governo del territorio in Lombardia, che nel quadro italiano costituisce un modello di riferimento innovativo anche se ampiamente discutibile, si è realizzata attraverso un processo incrementale e progressivo di deregolamentazione dell’apparato legislativo; un processo allineato alle aspettative dell’operatore privato e, sostanzialmente oltre che formalmente, dimentico della esigenza di un ordine spaziale generale a tutela dell’interesse collettivo.

La riforma apre la strada fin dall’inizio, e legittima nel corso del tempo, gli esiti, a nostro avviso inaccettabili, sia dell’urbanistica milanese recente nelle sue forme più note e macroscopiche dei grandi progetti di trasformazione urbana, sia delle assai più quantitativamente e qualitativamente rilevanti ‘riqualificazioni urbane’ diffuse nei centri minori e in generale sul territorio regionale. Tali esiti danno la misura dei veri obiettivi di una legislazione che apparentemente si presenta come aperta, innovativa e finanche rispettosa di alcuni aspetti di bene comune. La riforma si accompagna al proliferare più o meno esplicito di posizioni politico-culturali di forte disillusione per la pianificazione urbanistica di tradizione; di apertura al privato senza vere contropartite, veri controlli, vero accertamento di compatibilità prestazionale, vere garanzie per la città pubblica; di ‘liberale’ fiducia nelle virtù del mercato, edilizio-immobiliare, del tutto immotivate e finanche mai accolte dalla secolare tradizione dell’economia liberale.

I pilastri di tale modello sono costituiti:

- dalla possibilità che sia l’iniziativa privata a prefigurare l’organizzazione del territorio e non che essa sia, innanzi tutto, sottoposta a regole precise e possa essere chiamata a riempire di contenuti progettuali le opportunità offerte dall’amministrazione pubblica;

- dall’assegnazione del compito di difesa degli interessi collettivi a un processo di negoziazione fra pubblico e privato che, ben lungi dall’essere inquadrato entro regole chiare e soprattutto dall’attuarsi secondo principi necessari di trasparenza, si sviluppa secondo casualità, soggettività e differenziazione nel trattamento di interessi, comunicazione improntata a stili di marketing invece che a stili di responsabilità e accountability pubblica, parziale opacità e sbilanciamento a favore del privato nei benefici dei progetti di trasformazione [1];

- esplicita sfiducia per la pianificazione in quanto tale (rispecchiata anche nel Disegno di Legge nazionale Principi in materia di governo del territorio di Maurizio Lupi, ex assessore all’Urbanistica al Comune di Milano[2]) e auspicio di un ritorno al puro mercato, simile nella

* via San Gottardo 60, 20052 Monza (Mi), tel 338/1303756, fabrizio@eddyburg.it

** via Giuseppe Colombo 33, 20133 Milano, cell. 3202373523, mariacristina.gibelli@polimi.it

sostanza ad alcune recenti riflessioni colte (MORONI 2007) che sottovalutano i ben noti ‘fallimenti del mercato’ quando si è in presenza di beni pubblici, vaste esternalità generate dai comportamenti privati, effetti di rete[3].

In queste brevi note ci proponiamo di evidenziare le caratteristiche peculiari che il processo di riforma degli strumenti della pianificazione urbanistica e territoriale ha assunto in Lombardia: un processo caratterizzato dalla progressiva approvazione di disposizioni deregolative parziali che hanno costituito una sorta di quadro logico preliminare alla nuova legge generale e di terreno sperimentale di costruzione del consenso (sia delle amministrazioni locali che dei privati che di parte non secondaria della cultura urbanistica); un processo che si è tradotto nella approvazione nel 2005 della nuova Legge urbanistica (12/2005) quando ormai l’esperimento di semplificazione (simile negli strumenti, ma assai più modesto perché privo di grandi obiettivi strategici, al thatcheriano ‘streamlining the city’) aveva raggiunto una notevole articolazione e legittimazione. Approvata la legge urbanistica, essa sarà immediatamente sottoposta ad ulteriori modifiche in un processo che appare senza fine e senza limiti: perché non si tratta di semplici intenzioni, ma dello svolgersi di un tipo di ‘sviluppo’ già ben radicato sul territorio, per quanto in modo sporadico. La nostra tesi è che si voglia semplicemente, in modo assai poco consono a un approccio da pubblica amministrazione, dare sanzione istituzionale a comportamenti diffusi, e che si tratti di un atteggiamento per nulla progressista, da nessun punto di vista. Brevi cenni a vicende e casi di studio locali corroboreranno questa tesi.

Le tappe della riforma

La riforma delle leggi urbanistiche regionali di ‘prima generazione’ avviene a 25 anni dalla loro introduzione: una riforma improcrastinabile, per l’emergere di nuove problematiche urbane e territoriali ed evoluzioni istituzionali. Molte regioni fanno proprio il modello proposto dall’INU di sdoppiamento del piano urbanistico comunale; alcune rafforzano altresì i compiti di inquadramento territoriale affidati alla Provincia e introducono innovazioni in termini di processualità, copianificazione, valutazione e fattibilità, trasparenza e comunicazione, moderato sostegno all’intercomunalità volontaria.

La Lombardia procrastina invece la riforma, facendola precedere da una serie di prove parziali di deregolamentazione. Parole d’ordine: semplificare, velocizzare, flessibilizzare, sburocratizzare ripetute ossessivamente da un fitto schieramento di attori, compreso il mondo della ricerca. Si tratta di una drastica e rudimentale semplificazione concettuale, spesso celata da altre parole d’ordine: sostenibilità, densificazione insediativa a fini di contenimento del consumo di suolo, risposta alla domanda dei gruppi sociali più deboli, sussidiarietà, partecipazione, valutazione e monitoraggio; ma per obiettivi che nulla hanno a che spartire con le pratiche internazionali, che apparentemente evocano, tese invece a rilanciare il piano e la pianificazione, sia pure in forme rivisitate e riattualizzate.

Si potrebbe interpretare questa scelta di allungare i tempi della riforma urbanistica come un segnale di incertezza, di cautela in merito alla strada da percorrere. In realtà, i tempi dilatati perseguono un disegno lucido e determinato: costruire progressivamente il consenso delle amministrazioni locali (ampliando alcune deleghe, anche in nome di un male interpretato principio di sussidiarietà), del mercato (cui vengono concessi crescenti margini di libertà), degli operatori (grazie a una interpretazione estesa, e anch’essa scorretta, del principio di sussidiarietà orizzontale), dei proprietari e di un’opinione pubblica sempre più assuefatta.

Tra le tappe progressive di avvicinamento si possono ricordare:

- la L. R. n. 15/1996, Recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti, presto definita legge ‘sottotetti selvaggi’ per la devastante e definitiva compromissione di molti skyline urbani e per il sovraccarico urbanistico realizzato, per lungo tempo, senza alcuna contropartita collettiva e alcun controllo;

- la L. R. n. 23/1997, Nuove norme regionali per lo snellimento e la sburocratizzazione dei piani urbanistici e dei regolamenti edilizi, che introduce le varianti semplificate ad approvazione comunale;

- la L.R. n. 9/1999, Disciplina dei programmi integrati di intervento, che semplifica l’accoglimento dei progetti di trasformazione proposti dal privato, previo obbligo per i Comuni di elaborazione di un Documento di Inquadramento apparentemente strategico, ma che in realtà non soltanto espropria il piano regolatore dei suoi compiti, ma è continuamente modificabile nel corso del tempo ad includere tutte le proposte progettuali non compatibili con i suoi indirizzi (un processo controintuitivo che non ha eguali per cinismo e indifferenza per il bene comune);

- la L.R. 1/2001 che agevola ulteriormente i mutamenti delle destinazioni d’uso, consente la liberalizzazione degli interventi di ristrutturazione ed ampliamento in aree agricole, scardina le norme di tutela dei centri storici e riduce gli standard minimi obbligatori per attrezzature pubbliche (BELTRAME 2004).

La nuova legge urbanistica regionale (12/2005)

Sbloccato in questo modo l’assetto legislativo generale, si approva un testo di legge molto articolato, non privo di alcuni spunti innovativi, ma che accoglie tutte le disposizioni derogative precedenti, a partire da quella fondante delineata dai Programmi Integrati. Si separa la elaborazione degli strumenti urbanistici generali da quelli attuativi. Il PRG viene sostituito dal Piano di Governo del Territorio che si articola in tre atti, Documento di Piano, Piano dei Servizi e Piano delle Regole, che faticano a dialogare l’uno con l’altro, a durata differenziata e comunque sempre modificabili. Difficile, attraverso questa molteplicità di strumenti, costruire un quadro strategico unitario e stabile degli indirizzi dei Comuni in materia di sviluppo/tutela/pianificazione di settore da cui far discendere alcune regole non negoziabili di sostenibilità e coesione sociale. L’elaborazione appare infatti molto complessa e, implicitamente, promette di moltiplicare il mercato delle consulenze professionali ed accademiche, rendendo però più gravoso il compito dei Comuni.

Gli strumenti attuativi configurano un mosaico parcellizzato di opportunità di intervento che affidano comunque la trasformazione fisica al mercato privato attraverso la programmazione negoziata e la valutazione caso per caso. «Il salto dal disegno molto generale alle scelte puntuali che effettivamente incidono sul territorio e sugli interessi del mercato immobiliare (perché contengono effetti sul regime giuridico dei suoli) non è regolato e ciò costituisce una debolezza per la capacità di buon governo pubblico» (POGLIANI 2008, 122).

La dicotomia e gerarchia implicita degli strumenti di piano si rispecchia nelle procedure di approvazione: ai Consigli l’approvazione degli strumenti generali, alle Giunte l’approvazione degli strumenti attuativi (anche se, successivamente, con la LR 12/2006 questa competenza è stata opportunamente restituita ai Consigli, riconoscendone il ruolo centrale di indirizzo politico e amministrativo).

Inoltre, la DIA viene totalmente equiparata al permesso di costruire, e viene fortemente ridimensionato il ruolo della Provincia e della pianificazione di coordinamento cui vengono conferiti compiti di definizione di criteri e obiettivi generali di assetto del territorio, valutazioni di compatibilità e, in ultima analisi, poche competenze prescrittive (proprio nella regione dove si localizza l’area più metropolitana del paese), mentre altre leggi regionali di seconda generazione hanno ribadito, pur attraverso procedure attente alla copianificazione, la sovraordinazione nella attività pianificatoria delle Province sui Comuni.

Emblematici di questo approccio a doppio binario, o doppia prospettiva sul territorio, sono i programmi integrati di intervento di iniziativa privata: sia nei casi più discussi, sia (e forse molto di più) in quelli innumerevoli nascosti nelle pieghe delle trasformazioni locali. Tra i consolidati simboli della prima categoria spicca il caso del progetto City Life per la riorganizzazione del dismesso recinto della Fiera di Milano, balzato anche alle cronache nazionali forse più per questioni di forma (i grattacieli a cavatappi) che per le sostanziali trasformazioni che questo genere di interventi fa calare nell’evoluzione metropolitana, del resto esplicitate già nel Documento Comunale di Inquadramento. Quest’ultimo infatti, quando descrive il modello di regione urbana che intende configurare, lo presenta come «già suggerito dalle intenzioni e dai progetti di investimento di cui si ha notizia» (COMUNE DI MILANO 2000, 92) e, forse non a caso, lo intende come Sviluppo del Territorio e non più come Urbanistica (si veda il sito del Comune di Milano).

Le volumetrie del progetto, anche da sole, sono tali da farne, indipendentemente dal suo ruolo regionale, un’occasione estremamente delicata[4] che dunque meriterebbe, in un diverso contesto culturale, una prospettiva di ‘sviluppo del territorio’ di più ampio respiro. In definitiva, le pur aspre polemiche sugli aspetti urbani e architettonici dell’insediamento terziario-residenziale di grattacieli e alte densità, sulla qualità effettiva degli spazi aperti e la riorganizzazione fisica dell’intero settore urbano (GREGOTTI 2007; RAGAZZI 2007) tendono a porre in secondo piano la questione della regione urbana e del suo assetto, affidata non a una strategia condivisa da attuarsi tramite progetti mirati, ma via via «suggerita dalle intenzioni» degli operatori vincenti sul mercato.

Ma forse ancora più profonda appare la frattura rispetto al modello precedente di pianificazione territoriale se si osservano casi ‘minori’ a carattere locale, ma la cui pura somma aritmetica manifesterà certamente effetti molto più radicali dei pur vistosi progetti per l’area metropolitana centrale: trasformazioni striscianti e spalmate su tutto il territorio regionale che hanno già anche esplicitamente introdotto importanti innovazioni di carattere sociale e culturale, oltre che urbanistico e ambientale. Ci riferiamo ai tanti, sicuramente troppi, interventi di programma integrato per lo ‘sviluppo’ locale a puro contenuto edilizio, che interessano non solo la fascia metropolitana, ma tutto il territorio regionale sino ad aree che nella pubblicistica internazionale sarebbero definite l’esurbio della regione milanese, ovvero il sistema delle valli prealpine da decenni al tempo stesso paradiso delle seconde case e bacino di manodopera pendolare di lungo corso per il nucleo metropolitano centrale, e la fascia meridionale dell’Oltrepo[5].

Le successive ‘riforme’ della ‘riforma’

Dopo la approvazione della legge urbanistica, ci si poteva aspettare una pausa di riflessione, in attesa di vedere i primi risultati di un apparato legislativo molto complesso e, appunto, non organico. In rapida sequenza, vengono invece proposte e spesso approvate una serie di modifiche, anche sostanziose. Vediamone alcune.

A poco più di un anno dalla approvazione, con la LR12/2006 si introduce un premio volumetrico per PRU e PII per ‘edilizia residenziale pubblica’[6].

E’ poi il turno di una legge (che, in teoria, nulla ha che vedere con il governo del territorio) in cui è inserito un articolo giustificato attraverso una adesione retorica ad alcune parole d’ordine condivise in ambito internazionale: l’obiettivo dichiarato è la densificazione via rigenerazione, utilizzando al meglio le aree industriali dismesse e le aree interstiziali all’interno dei tessuti urbani consolidati al fine di salvaguardare gli spazi aperti non compromessi.

Si tratta della LR 1/2007, Strumenti di competitività per le imprese e il territorio della Lombardia, dedicata a rilanciare le industrie lombarde sui mercati internazionali. La legge si occupa di incentivi e sgravi fiscali alle imprese, ma interferisce in maniera perentoria con le politiche di riuso delle aree dismesse. Infatti all’Art. 7 si dà la possibilità ai Comuni di avviare una procedura di pubblica utilità sulle aree industriali dismesse (stimabili complessivamente in 25 milioni di mq) nel caso i proprietari, a 4 anni dalla cessazione delle attività sul 50% della superficie costruita, non presentino un progetto di riuso entro 18 mesi. Se ciò non avverrà, il progetto potrà essere affidato ad altro promotore che potrà proporre alle amministrazioni comunali, attraverso i Programmi Integrati di Intervento, qualsivoglia progetto.

In questo modo si apre la strada alla cementificazione pervasiva e rapida delle preziosissime risorse territoriali ancora disponibili, certamente peggiorando la qualità urbana e la vivibilità, ma indubbiamente anche il posizionamento competitivo della Lombardia in Europa cui la legge vorrebbe dare invece un robusto sostegno[7].

Ma gli emendamenti più sostanziosi sono nella LR 4/2008 che interviene a modificare 45 articoli della Legge per il governo del territorio. La legge conteneva in prima stesura anche il cosiddetto ‘emendamento ammazza parchi’ che, nelle intenzioni dell’assessore regionale Davide Boni, doveva semplificare le procedure di variante nelle aree a parco, privilegiando il punto di vista delle amministrazioni comunali intenzionate a urbanizzare nuovi spazi, anche contro il parere degli enti Parco.

Precedente ‘virtuoso’ di questa procedura semplificata, ovvero con rapido assenso dell’ente parco (il Parco Agricolo Sud Milano), era stato il Centro Ricerche Biomediche Avanzate, fortemente voluto dall’oncologo Umberto Veronesi e collocato nel quadro dei progetti di eccellenza legati all’Expo milanese del 2015. In realtà, i terreni, di proprietà di Salvatore Ligresti e localizzati nella fascia meridionale del comune di Milano, erano inseriti nella greenbelt agricola del Parco Sud e pertanto una pur encomiabile iniziativa veniva autorizzata a localizzare i suoi piuttosto ingombranti 600.000 mq complessivi in uno dei pochi spazi aperti residui del capoluogo, cuneo verde di collegamento agli ambienti più vasti della fascia metropolitana esterna. Nel caso specifico, la Provincia, l’ente responsabile, aveva immediatamente accettato di introdurre una variante considerando l’eccezionalità del caso, e intenzione della Regione era appunto di trasformare tale eccezione in norma, introducendo nella legge sul territorio l’emendamento bollato dall’opposizione come ‘ammazzaparchi’.

Sull’emendamento si sviluppa una forte opposizione civica che riesce a determinarne (provvisoriamente) lo stralcio (BOTTINI GIBELLI 2007).

Come è stato però già sottolineato (LANZANI 2005), all’effetto puramente edilizio e infrastrutturale della diffusione di alcune funzioni dal capoluogo sul territorio regionale si è accompagnata anche una trasformazione sociale. Certo non riconducibili a un modello caratteristicamente urbano, comportamenti e sensibilità si sono comunque evolute, e le comunità locali non appaiono più disposte ad accettare, come avvenuto in passato, qualunque trasformazione senza discutere. È quanto ha iniziato a emergere dalle adesioni che chi scrive ha raccolto nelle due fasi di una mobilitazione spontanea che ha visto la partecipazione e conferma (conferma piuttosto inattesa a dire il vero) di una parte della base leghista, mossa dalle medesime ragioni che per altri versi hanno alimentato campagne come quella delle ordinanze dei sindaci nell’estate 2008[8], e che in fondo sono il solo trait-d’union delle variegate posizioni del movimento dai primi successi elettorali a oggi. In sintesi, soggetti sociali tra loro assai diversi hanno aderito all’opposizione a un provvedimento considerato lesivo di un rapporto stretto e individuale con spazi aperti al tempo stesso sempre più rari e valutati tali anche da chi per altri versi non manifesta una particolare sensibilità o cultura ambientalista. Nel respingere con successo il tentativo di ridimensionare il ruolo dei parchi nell’organizzazione del territorio padano, si sono recuperate, se non altro inconsapevolmente e nelle forme meno radicali, le medesime sensibilità alla base ad esempio del primo movimento per le città giardino e la ricomposizione di un rapporto non solo produttivo con la campagna (BOTTINI 2008b; BOTTINI 2008c).

Malgrado questo parziale successo, occorre sottolineare che la LR 4/2008 introduce ulteriori grimaldelli deregolativi, anche se all’art. 43, probabilmente sulla scorta di esperienze di paesi assai lungimiranti in materia di politiche ambientali - quali ad esempio la Germania dove è stata introdotta una cospicua tassa straordinaria sulle urbanizzazioni in aree greenfield- si introduce un onere di impatto territoriale, e cioè un contributo di costruzione suppletivo per le nuove costruzioni su territori agricoli. In realtà, il contributo di costruzione, peraltro già modestissimo, potrà essere maggiorato in maniera irrisoria (1,5%-5%), e quindi non costituirà un disincentivo alla urbanizzazione. In compenso, dopo questo modesto ritocco ‘ambientalista’, si procede a ridimensionare ulteriormente le competenze in capo alla pianificazione provinciale: mentre nella Legge 12/2005 spettava al PTCP definire gli ambiti destinati all’attività agricola, al comma 4 dell’art.15 si stabilisce che il PTCP potrà perimetrare soltanto le aree agricole di interesse strategico, attenendosi a criteri per la definizione di tali aree che saranno deliberati dalla Giunta Regionale. Si indebolirà dunque ulteriormente la pianificazione di inquadramento territoriale togliendo alle Province una competenza forte di cui godevano in materia di perimetrazione e tutela delle aree agricole, e si aprirà di fatto la strada a un ulteriore consumo di suolo[9].

Inoltre si rafforza una interpretazione estesa dello strumento della perequazione urbanistica, consentendo la commerciabilità dei diritti edificatori su tutto il territorio comunale e la istituzione da parte dei comuni del registro delle cessioni dei diritti edificatori (comma 2 e 4, art. 11), mentre viene contestualmente approvato il principio che i limiti massimi di densità e di altezza non esistono più (comma 1bis dell’art. 103)[10].

Per ora è stata accantonata invece la cosiddetta Legge Obiettivo regionale che intendeva velocizzare la realizzazione delle autostrade locali e, tra le altre cose, legare esplicitamente e direttamente la realizzazione di queste infrastrutture al loro obiettivo esplicito: l’urbanizzazione diffusa che direttamente alimentano[11].

Se c’è un’idea di spazio, di ‘sviluppo del territorio’ padano davvero esplicita è quella legata alle grandi infrastrutture autostradali che, osservate sia nel loro evolversi che nelle dichiarazioni di intenti, sembrano riprodurre una storia già letta e riletta nella pubblicistica storica internazionale o anche sulla cronaca quotidiana a proposito di diffusione urbana e consumo di suolo. I termini specifici possono essere road gang, growth machine o altri (HAYDEN 2003), ma lo schema non cambia: si ‘aprono’ nuovi territori realizzando ad hoc arterie stradali, pensate più per la funzione di feeder per insediamenti sparsi che come corridoi di mobilità a connettere specifici nodi[12]. Si tratta di una prospettiva rafforzata, e per molti versi resa decisamente inquietante, da un passaggio del progetto di ‘Legge Obiettivo’ quando propone di inserire nelle concessioni anche «interventi di carattere insediativo e territoriale, rivolti principalmente agli utenti delle infrastrutture medesime ovvero a servizio delle funzioni e delle attività presenti sul territorio» (REGIONE LOMBARDIA 2007, art. 10 comma 3). Inquietante perché, proprio mentre nei purtroppo deboli strumenti di pianificazione provinciale si iniziano a inserire regolarmente ipotesi di contenimento degli insediamenti a nastro produttivo-commerciali, si tenta (per ora senza successo) di inserire un modello di ‘zone franche’ anche rispetto ai piani comunali, in cui, per un supposto riequilibrio fra i costi degli investimenti e i ricavi della concessione, si possano allineare senza soluzione di continuità capannoni e big-box, a riprodurre in modo ‘pianificato’ le peggiori distorsioni dell’insediamento spontaneo.

Ed è abbastanza facile immaginare certe forme di questa ubiqua strip, già oggi piuttosto invadenti (nonché calamite di altre presenze), estendersi all’intera rete delle arterie di grande comunicazione regionale: dal citato composito asse centropadano Stroppiana-Broni-Casteldario, alla Bre.Be.Mi, a quello che l’ex ministro Lunardi ha entusiasticamente definito il Grande Raccordo Anulare milanese (ASSOCIAZIONE PARCO SUD MILANO et al. 2004): ovvero un arco tangente ai confini provinciali, a chiudere fra questi «interventi di carattere insediativo e territoriale» l’intera area dal Parco del Ticino al pedemonte orobico.

Conclusioni: la città è finita e anche la campagna

Qualche anno fa si è imposto lo slogan di moda della città infinita, a definire essenzialmente la fascia tradizionale di maggiore impatto della diffusione urbana lombarda, ovvero quella pedemontana. L’immagine forse non a caso è mutuata da una mostra e iniziative annesse che vedevano in primo piano soprattutto operatori della comunicazione sociale anziché delle discipline del territorio (BONOMI ABRUZZESE 2004); ma si è, forse altrettanto non a caso, rapidamente imposta nella pubblicistica, specializzata e non. Il nuovo paradigma, buono per tutte le occasioni, non sembra adattarsi tanto a una condizione di irresponsabile dispersione insediativa non frenata dalle politiche pubbliche, ma piuttosto alla attrazione fatale di una legislazione deregolativa per ‘lo sviluppo’, inteso come primo e primario obiettivo di una politica di governo del territorio. Uno sviluppo che fa male sia alla città, destinata a perdere i suoi connotati originari di abitabilità e di urbanità, che alla campagna, destinata a perdere i suoi connotati di continuità non costruita di spazi aperti.

Il modello di governo del territorio all’opera in Lombardia, così come tratteggiato sinora, rischia di ‘far morire’ sia la città che la campagna? Molti indizi fanno temere che questo scenario non sia del tutto irrealistico:

- il modello di negoziazione che viene proposto, e attuato, è senza rete e senza regole; manca inoltre delle necessarie condizioni di trasparenza;

- il potere discrezionale dei comuni è altissimo, anche grazie a una scorretta interpretazione del principio di sussidiarietà: ai Comuni vengono attribuite competenze esclusive in merito a problematiche che non possono essere affrontate in maniera ‘efficiente’ alla scala locale (problemi, decisioni e impatti che riguardano la scala sopracomunale);

- il potere discrezionale dei privati è elevatissimo, anche grazie a una scorretta interpretazione del principio di sussidiarietà orizzontale (si estendono ai privati, che agiscono per profitto, funzioni, mezzi e valori di riferimento che sono attribuibili esclusivamente al Terzo settore e alle imprese non profit) (CONSIGLIO DI STATO 2003);

- è il mercato (immobiliare) a dettare le priorità, gli ambiti di intervento e le regole da applicare ai singoli progetti: le leggi lombarde dell’ultimo decennio hanno rimosso vincoli, affossato principi ampiamente consolidati di tutela della città pubblica, concesso incentivi e premi volumetrici, accelerato procedure approvative in una sorta di ‘frenesia autodistruttiva’ della autorità pubblica che forse occorre interpretare come l’esito non tanto, o soltanto, di un profondo intreccio di interessi, ma come il segnale di un drammatico vuoto culturale;

- è possibile praticare un modello radicale di perequazione urbanistica con attribuzione di diritti edificatori omogenei su tutto il territorio comunale, incluse le aree agricole o tutelate, e non soltanto sulle aree destinate a trasformazione urbanistica;

- in tutto questo percorso riformatore non appare in alcun modo rappresentata la necessità che i Comuni, in un quadro di ‘federalismo urbanistico’, possano disporre di risorse indipendenti dalla fiscalità immobiliare/edilizia per coprire le loro esigenze sia di investimento che di gestione. Anzi, il mantenimento di livelli assai bassi degli oneri e la mancata opposizione alle strategie nazionali sulla abolizione dell’ICI sulla prima casa senza avere contropartite fatalmente spingeranno sempre più i Comuni verso lo sviluppo edilizio;

- infine, il tema della promozione e del sostegno all’associazionismo volontario intercomunale e della pianificazione in forma associata appare decisamente trascurato, proprio quando in tutte le aree più sviluppate d’Europa è in questa dimensione che viene affrontato l’equilibrio fra le esigenze certo irrinunciabili dello sviluppo e quelle della sostenibilità, della qualità della vita e del rafforzamento del senso identitario locale.

La qualità della vita, nella prospettiva di sviluppo lombarda così come è stata proposta da queste note, appare invece molto orientata in senso piuttosto tradizionale, se non peggio, di espansione dei consumi, o al massimo di cieca fiducia nelle capacità del solo ‘mercato’ (inteso spesso semplicisticamente come sommatoria aritmetica di interessi puntuali). Dobbiamo attenderci città sempre più congestionate e invivibili e, di conseguenza, consumo esasperato di risorse territoriali dettato dalla ricerca di ambienti di vita di migliore qualità nei centri minori o nelle aree suburbane e rurali: uno schema che ricalca il passato prossimo di altre regioni sviluppate del mondo. Ciò vale sia per la residenza, sia per altre attività e servizi, a partire da quanto il gergo urbanistico definisce LULU, locally unwanted land use, ovvero discariche, inceneritori, o tristi emergenze contemporanee come i campi nomadi e altro. Si è già citata l’area pavese, sia in quanto esurbio della regione metropolitana centrale nella zona collinare dell’Oltrepo, sia come spazio di sperimentazione del nuovo modello di sviluppo territoriale a orientamento autostradale con l’arteria della Lomellina e la sua funzione di ‘servizio’, per molti versi simile a quello auspicato negli anni ’60 con gli svincoli della rete al Sud. Leggendo recenti studi di associazioni e comitati locali, emerge anche per l’area pavese un altro ruolo, appunto di ricettacolo di LULU, e insieme di rapida e strisciante urbanizzazione diffusa (ITALIA NOSTRA 2008), con il vero e proprio dispiegamento di una sessantina di grossi progetti di trasformazione in cui si sommano, piuttosto alla rinfusa, bretelle stradali, lottizzazioni produttivo-commerciali, impianti nocivi, con una superficie urbanizzata che nell’arco di mezzo secolo è passata da poco più di 10.000 ha a quasi 25.000 ha. E la legge lombarda sul governo del territorio, sempre secondo le associazioni e i comitati, sembra legittimare questo stato delle cose e promuoverlo a obiettivo auspicabile di ‘sviluppo del territorio’[13].

Sulla base di queste considerazioni, non si può che concordare con le desolate constatazioni delle comunità locali. Comunità locali che possono rappresentare però, anche se non in forme direttamente istituzionali, un contraltare importante al decisionismo ufficiale e al potere dei grandi operatori economici. Si è già detto dell’inatteso sviluppo della polemica sui parchi, e probabilmente molto ancora ci si può attendere dalla crescita, sia culturale che di consapevolezza diffusa, derivante dai processi di VAS che mettono a disposizione diretta dei cittadini la documentazione dei piani e progetti di trasformazione. Una consapevolezza in crescita che, indipendentemente dall’aspetto pur essenziale della rappresentanza politica e nelle amministrazioni locali, può in parte controbilanciare propositivamente le scelte in gran parte miopi e discrezionali dell’attuale classe dirigente.

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[1] Camagni ha dimostrato come, in progetti del tutto simili di trasformazione, a Milano l’ambito pubblico riceve oneri e impegni da parte del privato che si aggirano attorno a 1/3 di quanto riceve Monaco di Baviera: 9% circa del valore della trasformazione (ma non comprendendo la monetizzazione di standard, non scorporabile nei dati ufficiali, si scende a circa il 5% ) contro il 30-33% nel caso di Monaco di Baviera (CAMAGNI 2008).

[2] Un disegno di legge approvato dalla Camera dei Deputati nel 2005, ma non approvato dal Senato durante il penultimo governo Berlusconi ormai in scadenza di legislatura, grazie anche alla mobilitazione di autorevoli urbanisti, giuristi ed economisti (GIBELLI 2005).

[3]Si tratta di limiti riconosciuti da tutti i grandi economisti liberali e solo recentemente trascurati da correnti di pensiero ultraliberiste e ideologicamente connotate che negano le giustificazioni che da sempre e in tutti i paesi avanzati hanno legittimato l’intervento pubblico di pianificazione. Se in taluni contesti, come in parte in quello italiano, i risultati non sono stati all’altezza delle aspettative, non per questo va messo in soffitta un paradigma pianificatorio necessario che altrove ha dato buoni frutti. D'altronde è noto, sulla scorta di Karl Polanyi, che il mercato, pur allocando efficientemente le risorse, opera all’interno di necessarie regole proposte dall’etica sociale per quanto concerne l’uso dei fattori produttivi: lavoro, capitale (ad es. le leggi contro l’usura) e oggi le risorse naturali e ambientali (POLANYI 1974; CAMAGNI 2007).

[4] Una superficie centralissima di 255.000 metri quadrati, collocata strategicamente su uno degli assi di sviluppo più infrastrutturati a scala regionale (il cui prolungamento naturale contiene a breve raggio il polo fieristico di Rho-Pero, le aree dell’Expo, la stazione Tav e molto altro), destinato ad ospitare circa un milione di metri cubi edificati.

[5] È il caso di Piazzatorre, piccolo comune dell’alta Val Brembana costituito quasi interamente da seconde case (e quindi dove il rapporto elettori/consumo di territorio è elevatissimo) che decide, nella classica logica ‘concertata’, di cedere una delle ultime porzioni di spazio teoricamente edificabile in cambio di un intervento di rilancio degli impianti di risalita e comprensori sciistici (BOTTINI 2008a). Ne nasce un conflitto, forse troppo complesso per definirsi semplicemente nimby, fra due segmenti della società locale: da un lato i residenti, ‘premiati’ dall’investimento privato di trasformazione, dall’altro i proprietari delle seconde case esistenti, che vedono forse più correttamente la questione nei termini di degrado ambientale su scala vasta e scarso respiro anche per lo sviluppo. Per le modalità tutto sommato piuttosto innovative di questa forma di conflitto locale, si veda http://salviamopiazzatorre.blogspot.com ricco di documentazione e materiali anche non locali.

[6] La legge prospetta ai Comuni l’alternativa fra riduzione degli oneri e possibilità di incrementi volumetrici fino al 15%): e naturalmente i Comuni, afflitti da una crescente crisi fiscale, non rinunceranno agli oneri… Da segnalare altresì che, in controtendenza con la critica continua alla pianificazione prescrittiva, si introduce l’obbligo alla pianificazione dei luoghi di culto, in omaggio alla pulsione antislamica leghista.

[7] A puro titolo di esempio della grande distanza culturale fra questi provvedimenti e gli approcci privilegiati in altri paesi avanzati, in Francia si utilizzano due terminologie diverse (tratte dal lessico agrario) per classificare le aree industriali dismesse: si parla di friches industrielles quando si tratta di terreni abbandonati (incolti) che possono essere inseriti nel circuito di mercato soltanto a seguito di una adeguata riqualificazione ambientale spesso a carico del settore pubblico; ma anche di jachères (cioè di campi messi periodicamente a riposo per rigenerarne la elevatissima produttività), quando si tratta di aree per le quali è da attendersi che il cambiamento di destinazione d’uso produrrà una formidabile valorizzazione. Su questa seconda tipologia di aree, normalmente affidate a progetti in partenariato pubblico/privato, si esercita una precisa e decisa regia dell’amministrazione per quanto riguarda il contenuto funzionale, e quindi i vantaggi ricavabili per la città pubblica.

[8] Fra le più paradossali ordinanze dei sindaci ‘sceriffi’ dell’estate 2008, quella dell’amministrazione di centrodestra di Cassano d’Adda che, il giorno di Ferragosto, per impedire il tradizionale picnic annuale della comunità africana della provincia, ha di fatto bloccato l’accesso ad ampie aree del parco metropolitano/regionale e la comunicazione non automobilistica fra le due rive del fiume, trascinando indirettamente nel tragicomico centinaia di migliaia di persone.

[9] Il tema costituisce una priorità nel PTCP milanese fra i cui obiettivi troviamo enunciati la compatibilità ecologico-paesistica delle trasformazioni, il contenimento dei consumi di suolo e il compattamento delle espansioni, la tutela degli ambiti agricoli cui si attribuisce la triplice valenza produttiva, naturalistica e paesaggistica.

[10] Un principio pericolosissimo che autorizzerà l’Assessore allo Sviluppo del Territorio di Milano, Carlo Masseroli, a proporre nel dicembre del 2008, e rapidamente fare approvare, un programma di ‘rivitalizzazione demografica’ di Milano destinato ad aumentare i residenti di 700.000 unità entro il 2015 (la data magica dell’Expo) e, obiettivo molto più concreto e iscritto nella filosofia del governo municipale milanese, ad ipotizzare un incremento dell’indice di utilizzazione territoriale dagli attuali 0,65 mq/mq a 1,00 mq/mq, secondo quanto suggerito nell’Aggiornamento del Documento di Inquadramento delle Politiche Urbanistiche del luglio 2008.

[11] Sui contenuti specifici della LR 26 maggio 2008 n 15, Infrastrutture di interesse concorrente statale e regionale, e i motivi del fallimento di questo progetto definito di ‘federalismo infrastrutturale’ cfr. ROSSI 2008.

[12] Obiettivo spesso intuito in vari casi e scelte di tracciati, e reso esplicito quando, come nel caso recente della autostrada regionale Broni-Mortara-Stroppiana, che raccorda la linea del Corridoio pedemontano al ‘cuore verde’ centropadano dell’asse Torino-Piacenza-Cremona-Mantova, si dichiara di voler «offrire un servizio ed un’opportunità di sviluppo produttivo alle aree dell’Oltrepo e della Lomellina» (INFRASTRUTTURE LOMBARDE 2006, 7).

[13] «Dobbiamo ideologicamente presumere che tutto quanto deciso e pianificato da un Consiglio Comunale sia da considerare intangibile? É il principio sancito dalla nuova legge regionale 12/05, purtroppo. Il problema del consumo incontrollato di suolo nasce […]da previsioni spesso irrazionali di crescita urbanistica che nascono in seno alle comunità locali; nasce dalla sommazione di previsioni di espansione urbanistica che singolarmente vengono vissute come legittime richieste di crescita, ma che una volta composte in un quadro complessivo sono destinate a determinare subdolamente una amplificazione del fenomeno del consumo di suolo», Ivi. p. 28.

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